Ettore Gramaglia nasce a Torino il 29 agosto del 1895, figlio di Cesare e di Caterina Brusa. Ultimogenito di quattro figli cresce in una famiglia di albergatori con stallaggio per cavalli e diligenze, nel borgo di Madonna di Campagna sulla strada della Venaria Reale.
Si diploma in falegnameria e disegno alle scuole tecniche; soldato nel 1918 si ritrova a distribuire fette di pane ai soldati austriaci affamati sul ponte di Bassano; rientrato dalla guerra rifiuterà la medaglia al valore che molti anni dopo l’esercito italiano distribuirà ai “suoi” combattenti. Nelle ristrettezze post-belliche si arrangia lavorando con mansioni saltuarie negli stabilimenti cinematografici torinesi, realizza manufatti liberty, è interessato a diverse tipologie di lavorazione dei legni, come la “bicicletta tutta in legno” della ditta Vianzone. Uno tra i primi sciatori torinesi, pratica discipline sportive e si diletta a suonare il mandolino e la cornetta; curioso e socievole scrive versi, s’interessa al disegno e dipinge.
A ventisei anni, nel 1922, si trasferisce a Ciriè, una cittadina ad una ventina di chilometri ad ovest di Torino dove è responsabile delle proiezioni e degli spettacoli del cinema-teatro Richiardi: dalle scelte dei film all’allestimento delle scenografie lavora a tempo pieno per la rinomata sala di zona.
Gli studi sulle fotografie e sui documenti dell’epoca sono un sufficiente materiale per formulare un primo bilancio: tra dipinti di ritratti e paesaggi, disegni, e scenografie la sua produzione è stata molto vasta ed ampia in quel periodo. Dedito a tempo pieno alla manifattura di opere d’arte e ad effetti di scena vive nella stanza-studio presso il locale dove lavora; vi gravitano amici, conoscenti e personaggi del teatro del varietà piemontese. Di questo periodo la maggior parte delle opere da lui prodotte risultano a tutt’oggi disperse.
Questo genere di spettacolo diventerà poi l’avanspettacolo del cinema degli anni trenta e non reggerà alle modifiche introdotte dal regime fascista, o meglio all’irruzione della Kultura degli incubi e dei trionfi della volontà, nati dagli orrori delle vicissitudini del cinema occupato a celebrare i totalitarismi: dove il cinema tedesco, e non solo, era tutto dedito a costruire le trame illimitate del sacro e dei miti che avrebbero condotto verso l’abisso della dittatura. Verranno sempre più a cadere gli interessi per il momento quotidiano di vita, privilegiando i Moloch, i mangiatori di bambini. Identificazioni, stereotipi, fissità che faranno assumere a Freud una posizione d’intransigenza e d’inquietudine rispetto al cinema, ed in particolare sui Misteri di un’anima del 1926. Al cinema-teatro sopravviveranno solamente le compagnie di cartellone, quelle che non frequenteranno più i teatri di provincia, affidando solamente alla memoria del rimpianto le sciantose ballerine in passerella per uniformarsi ai rigorosi standard culturali dell’epoca.
Ettore Gramaglia non può adeguarsi, anche se ci prova: il travaglio delle tre versioni della Madonna di S.Girolamo n.56 (si veda il Catalogo) ne sono una testimonianza evidente. Restano di quel periodo le sue grandi opere: Il nudo femminile n.52, Le comari n.53, Costumi sardi n.54, L’autoritratto n.57, e la particolare attenzione che rivolge al Correggio con La Madonna di S.Girolamo, appunto nella terza versione, la Madonna con bambino n.55 e quell’unica ed esclusiva Deposizione con sudario n.50 che abbraccia un pensiero lavorato per più di vent’anni, iniziato da una visione paesaggistica per concludersi con una indicazione all’assolutismo dei principi (La Visaille n.48,49,50,51).
Nel 1940 non è più il tempo di poter pensare di riuscire a vivere d’arte in una cittadina di provincia, le condizioni politico-sociali sono tali che Ettore Gramaglia decide di occuparsi della fabbricazione della carta: occasione di dirigere una cartiera che gli viene offerta dai proprietari amici di una industria ciriacese. Perfino per occupare un posto di lavoro gli viene richiesta l’iscrizione al partito dal governo locale!
In questo periodo conosce Zenobina Casassa con la quale decidono di costruire famiglia: si sposeranno nel 1942 ed avranno il figlio Giancarlo.
Non ha mai smesso di lavorare il legno e d’inventare manufatti: occasioni di fare la culla per il bimbo, di progettare giocattoli oppure arredi per la casa o scenari di presepi non se le lascia sfuggire. Ha così avvio quel tempo che, per comodità di lettura nelle Opere di Ettore Gramaglia è stato chiamato il terzo periodo e che va dal 1956 alla sua scomparsa avvenuta nel 1985.
Il 1956 è l’anno in cui c’è una ripresa esplosiva del suo discorso artistico nelle opere di pittura ad olio con una produzione ben conosciuta e documentata. Ha superato appena i sessant’anni, lo ricordo frequentatore assiduo degli eventi artistici torinesi, partecipa a mostre ed a concorsi, il suo approccio all’arte è strettamente collegato con la propria soddisfazione e col vivere serenamente. Pensa all’arte come diletto e piacere; scrive nel ’66: “salviamoci dagli esperti dell’arte, comunque saremo presto in un paese multietnico!”. Va a spasso in montagna con la tavolozza dei colori in spalla: la valle d’Aosta e di Lanzo sono le zone che predilige perché conosce meglio e può iniziare un lavoro di documentazione indicando la salvaguarda dell’architettura alpina evidenziando ruderi o affreschi o chiesette o percorsi particolarmente rilevanti per la cultura locale: può essere una “muanda” – casa d’alpeggio adibita alla transumanza delle vacche avvenuta per secoli- che alcuni governi locali permetteranno di trasformare in moderne villette, mentre altri salvaguarderanno.
L’atto di denuncia si focalizza sempre più ed affronta temi nodali che la società attuale semplicemente trascura: si rende conto di non poter fare più di tanto per farsi accogliere, se non di trasmettere ai posteri il suo messaggio.
È osservatore informato dei vari avvenimenti artistici che negli anni sessanta prendono avvio, archivia cataloghi e depliant dell’arte povera e degli altri eventi contemporanei artistico-culturali che succedono; nel sessantotto continua la sua opera solitaria fino ai Rami parlanti del 1980.
Ciò a cui è interessato è lo specifico momento di serenità per dipingere un campo nomade n.140, quando parla con lo zingaro o gusta insieme un’offerta di cibo, oppure coglie l’amico farmacista in un’espressione perplessa n.157, o evidenzia la cocciutaggine culturale nella Giostra della vita n.160. I temi che affronta si fanno via via più portanti rispetto alla chiusura che il suo discorso incontra: con Verranno i Cinesi n.161 modificherà per protesta il quadro esposto alla Promotrice delle Belle Arti di Torino incollandoci una sagoma orientale davanti alla catena del monte Rosa.
Quadri dello stesso periodo che ho titolato Adolessenza n.159 in onore di quell’eredità che mi ha permesso di afferrare il pensiero di Freud e di Contri per riconoscermi in quel “manichino” dipinto sulla spiaggia di “Paul Gauguin con Vango” nella rappresentazione della mia pozza narcisistica. Terminerà lavorando alla serie dei rami parlanti, non prima di aver prodotto “A me uno scranno” n.184.
Quando si riprende la storia di vita di un personaggio del novecento solitamente viene collocato in un ambito sociale di impegno politico per farne velatamente un eroe; se la collocazione non è di tal fatta gli vengono attribuiti meriti morali da delinearne una biografia di maniera. Col questo lavoro cerco di rompere il cliché per parlare di Ettore Gramaglia come l’ho conosciuto e cosa ho tratto dalle sue carte.
La galleria comprende i quadri di Ettore Gramaglia presenti in casa della psicoanalisi: dove una parte dei lavori sono in Catalogo E.G., l’altra è fuori catalogo in parte da individuare.