Socrate ed Epicuro: precursori della psicoanalisi?

Trascrizione integrale dell’ Incontri con…  del 2 febbraio 2019.
Ospite: ERNESTO RIVA

RIGUARDA LA DIRETTA

a cura di  Giancarlo Gramaglia

SOCRATE ED EPICURO: PRECURSORI DELLA PSICOANALISI ?

Introduzione

La psicoanalisi è stata creata da Sigmund Freud tra la fine dell’Ottocento ed i primi del Novecento. E’ quindi una disciplina nuovissima, mentre le figure di Socrate e di Epicuro risalgono a più di due millenni fa. Che cos’hanno in comune tre famosissimi personaggi della cultura occidentale? D’altra parte, stranamente, in tutti gli scritti freudiani vi è una sola citazione riguardante Socrate e così pure Epicuro. Eppure, nonostante l’apparente trascuratezza da parte di Freud di tali nomi, mi sembra che potremmo considerare tutti e due come – per così dire – degli psicoanalisti ante litteram. In che senso? La risposta è l’argomento del mio intervento. 

Conosci te stesso

Cominciamo da Socrate (470/69-399 a.C.). C’è un detto famosissimo collegato con la sua figura, che tutti conoscono, anche chi non ne sa nulla di filosofia, ed è l’espressione “conosci te stesso”. In realtà, come è noto, l’espressione era stata incisa sul frontone del tempio di Delfi ed era attribuita a Talete (6° sec. a.C.), uno dei primissimi filosofi – anzi uno dei cosiddetti Sette sapienti -, ma Socrate la fece sua. 

Che cosa vuol dire “conosci te stesso”? ovviamente possiamo attribuirle molteplici significati ma il più antico ed originario era il seguente: riconosci in primo luogo quello che sei, e cioè un uomo, per cui un abisso ti separa dal divino! Fu questa, forse, la più alta forma di ammonimento da parte della tradizione greca. Questa massima, forse la più conosciuta di tutto il pensiero greco, non perse mai il suo valore ed ecco spiegato perché Socrate poté accoglierla come sua, anche se per lui avrà anche un’altra accezione, come vedremo tra breve.

Da quanto finora detto, non vi sembra che il metodo psicoanalitico sia molto simile e abbia parecchie affinità con il detto antico? Non si tratta forse anche per Freud di conoscere noi stessi, di conoscere la nostra personalità più profonda e non è quindi un compito che spetterebbe a tutti, e non solo alle persone … che dichiarano di avere dei “problemi”? In altri termini, quello che invita a fare la psicoanalisi è qualcosa che riguarda ogni uomo e non solo i “malati”, e dunque è una disciplina che dovrebbe essere usata soprattutto dai cosiddetti sani e solo in seconda battuta dalle persone con problematiche “psico-” qualcosa. Ecco una prima considerazione importante. Ma procediamo.       

Ironia e maieutica

Come si fa a conoscere se stessi? Per conoscere noi stessi, la prima condizione è quella di riconoscere le proprie possibilità ed i propri limiti, cioè liberarci dalla vana presunzione di sapere tutto (come pretendevano di insegnare i Sofisti nella Atene del quinto sec. a.e.v.). Per arrivare a ciò, Socrate si serviva di un particolare metodo che ha i suoi punti salienti nella ironia e nella maieutica.

L’ironia (che significa etimologicamente dissimulazione, finzione) è quell’insieme di domande, interrogativi, provocazioni paradossali di cui Socrate si serviva per distruggere la presunzione di sapere del discepolo, per far quindi sorgere il dubbio sulle proprie conoscenze riconoscendone la fragilità, e per impegnare successivamente il discepolo nella ricerca della verità libero ormai da pregiudizi e illusioni.

Anche in questo caso, il metodo psicoanalitico – che, ricordiamo, all’inizio fu chiamato da Breuer, l’amico di Freud, metodo catartico – non è forse particolarmente vicino al procedimento socratico? Non si tratta, anche nella analisi, di parlare, parlare, parlare, fino a quando non si evidenzia ad es. un blocco, una pausa, un momento in cui la persona di fronte allo psicoanalista si ferma e non osa dire altro o svia il discorso? Certo, nell’ambito psicoanalitico a parlare è soprattutto l’analizzando ma ovviamente anche lo psicoanalista può intervenire, e comunque la finalità è sempre la stessa, ovvero tirare fuori la verità. E tirare fuori la verità, far emergere la verità è ottenuto da Socrate tramite la cosiddetta maeiutica, l’arte della levatrice, che la madre di Socrate, Fenarete, esercitava. Come la levatrice aiuta le donne a partorire i figli, così Socrate vuole aiutare il discepolo a partorire la verità (cfr. Teeteto, 149-151). 

La psyché e il bene

Riassumiamo il metodo socratico: egli interroga il discepolo fino a metterlo in difficoltà; il discepolo arriva al punto che non sa più che cosa obiettare al maestro ed allora il maestro gli fa notare che è proprio quello il momento decisivo: nel momento in cui io prendo finalmente coscienza, raggiungo la consapevolezza, mi rendo conto di non saper nulla o quasi, ecco, in quel momento io … so di non sapere (la cosiddetta dotta ignoranza) ed è allora – proprio allora – che io posso cominciare a … iniziare un cammino di ricerca verso la verità, anzi verso il mio bene. E’ solo allora, dopo aver sgombrato la mia interiorità da pregiudizi, da preconcetti, da false illusioni, da razionalizzazioni e simili, che posso intraprendere il mio personale cammino verso la verità. 

Ora, non vi sembra che la psicoanalisi inviti a fare lo stesso? Per scoprire la causa ad esempio di una nevrosi, non c’è forse bisogno di indagare a fondo, di superare tutti quegli ostacoli che si frappongono alla scoperta della motivazione per cui un certo giorno è successa una certa cosa?

Arriviamo qui ad un punto molto, molto importante. Dopo aver distrutto il sapere fittizio del discepolo, Socrate non vuole però che egli si appropri delle teorie eventuali del maestro. Socrate non vuole dare al discepolo una sua dottrina, bensì lo vuole stimolare nella ricerca della sua personale verità ovvero del suo bene personale. In altri termini, Socrate non vuole dare la sua ricetta della felicità o della verità al discepolo ma vuole che sia lui stesso a cercare ed a trovare la sua personale verità o felicità o bene. Non so se è chiaro o se si riesce a cogliere l’importanza di quanto appena detto. Sia Socrate che la psicoanalisi non danno ricette preconfezionate ma invitano alla ricerca del proprio bene personale! Farò un esempio: a me piace la Nutella e ad un altro il pistacchio. Il mio bene personale è gustare la Nutella e non mangiare del pistacchio. Se io dovessi mangiare del pistacchio non starei bene mentre sto bene quando mangio la Nutella. Quello che conta, insomma, è il mio bene, è il bene per me, e non quello dell’altro. Qui Socrate – e la psicoanalisi – dicono la stessa cosa: è sbagliato andare alla ricerca del bene altrui preferendolo al mio proprio bene; finché lo faccio, non sarò mai felice, non sarò mai libero, non sarò mai realizzato. Se poi un altro – chiunque egli sia, o genitore o amico o ideologia o credenza ecc.- si impone su di me volendo guidarmi per una certa via, ed io in qualche modo la seguo, mi dimentico di me stesso, non faccio il mio bene ma anzi faccio il mio male.  

Il motto delfico – conosci te stesso – vorrà allora dire, per Socrate, “conosci la tua anima”, ovvero conosci la tua psyché in greco, giacché l’uomo, nella sua essenza più profonda, non è altro che la sua anima. E’ proprio nel pensiero di Socrate che il tema dell’anima esce dal contesto religioso – caratteristico di Orfismo e Pitagorismo, concezioni mitico-religiose di quei tempi – per diventare, attraverso un processo di moralizzazione e di individualizzazione, il fulcro del discorso morale.

Se “compiere ciò che è proprio a ciascuno” è per Socrate il principio di ogni atto morale, con questa affermazione egli da un lato si ricollega ad un qualcosa che era profondamente radicato nella concezione del tempo (l’areté come eccellenza, abilità, capacità) ma dall’altro, con lui per la prima volta, si rende indipendente dal giudizio degli altri, dalla gloria e dall’onore. Ecco la grande novità socratica: non è più l’opinione degli altri, sia pure quella dei buoni e dei giusti, che deve determinare l’uomo. Ciascuno deve invece “conoscere se stesso” e sviluppare ciò che è “proprio” della sua natura, senza preoccuparsi delle cose e dei giudizi altrui, finché non sia in chiaro con se stesso.

Che cos’è allora il bene? Non è un valore ideale più o meno discutibile, al contrario, il bene è ciò che fa sì che ogni uomo diventi quello che la sua natura più profonda

esige. Se io rifletto, potrò giungere a scoprirlo, per cui è proprio il sapere, la conoscenza, che permette all’uomo di conoscere se stesso e quindi di conoscere qual è il modo più adatto per vivere e per essere anche felice, ovvero realizzato, ovvero adempiere il mio dovere, fare quello che devo fare, a seconda di quello che sono, o spazzino o impiegato o dirigente o imperatore della galassia.

E, si badi, non si tratta di relativismo nel senso di dire che allora non c’è una verità valida per tutti e quindi ognuno la pensa un po’ come vuole, per cui sarebbe giusto che il killer facesse il killer e la vittima la vittima. No, perché il mio bene, la mia anima, la mia essenza più profonda è per tutti qualcosa sempre di positivo, di buono, di benevolo, di piacevole e non è mai qualcosa che ti porta a fare del male, il che è anche dimostrato banalmente dal fatto che più male fai più stai male. Dunque niente relativismo, niente nichilismo, niente negativo. Ecco perché è sempre preferibile fare il bene piuttosto che il male: perché il bene è la salute dell’anima, come la forma fisica è la salute del corpo. 

Direi che questa è l’essenza stessa della psicoanalisi freudiana: la ricerca del mio vero bene è la ricerca personale, unica, ad personam, di ciò che mi può rendere libero e felice. Socrate aveva già capito che ognuno di noi deve andare alla ricerca del proprio bene personale e finché non lo abbiamo raggiunto non saremo mai né liberi né felici, ed ecco perché, purtroppo, la maggior parte degli uomini … non sono tuttora … né liberi né felici! Non è forse una ben amara constatazione quella che ci porta a riconoscere che … la vita della maggioranza degli uomini non è affatto bella? Viviamo e moriamo in genere rifiutandoci di pensare, di affrontare il vero problema dell’incontro con noi stessi, per cui trascorriamo tutti i nostri anni da frustrati, ignoranti, pieni di problemi, solo perché non ci siamo mai decisi, una buona volta, a dire basta! mi fermo un attimo e comincio a … conoscere un po’ me stesso!

Epicuro e il quadrifarmaco

Per Epicuro la filosofia non deve solo studiare la natura, non deve solo conoscere le cause delle cose in senso puramente astratto ma deve servirsi della conoscenza per poter vivere nel modo migliore. In altri termini, deve essere una attività non solo teorica, ma al contrario essere applicabile nella vita quotidiana, e proprio per questo deve contribuire ad alleviare anche le sofferenze dell’umanità. E’ quello che Epicuro sostiene nel suo quadrifarmaco, ovvero che la filosofia 1) libera l’uomo dalla paura degli dèi; 2) libera l’uomo dalla paura della morte; 3) dimostra la brevità e provvisorietà del dolore; 4) dimostra la facile raggiungibilità della felicità, che consiste nel piacere.

Da qui si può già intravedere una qualche affinità col metodo psicoanalitico: in primo luogo la affermazione chiarissima per cui la filosofia deve aiutare l’uomo a vivere bene, il che è anche uno degli scopi della psicoanalisi. In secondo luogo, il fatto che la filosofia riesca a liberare l’uomo dalle sue paure non è forse un altro degli obiettivi del percorso analitico? Aiutare l’uomo a liberarsi da quelle paure che gli impediscono di essere libero, di condurre una vita serena, insomma di vivere appunto bene: ecco quello che Epicuro e Freud vorrebbero.

La liberazione dal dolore

Dei quattro punti del quadrifarmaco mi soffermo solo sul terzo e sul quarto, che riguarda la concezione epicurea del dolore e poi della felicità intesa come piacere (edoné).

Riguardo al dolore o alla sofferenza variamente intesa, Epicuro ha la sua particolarissima risposta. Egli dice che: se il male è lieve, il dolore fisico è sopportabile, e non è mai tale da offuscare la gioia dell’animo; se è acuto, passa presto; se è acutissimo, conduce presto alla morte, la quale non è che assoluta insensibilità. E i mali dell’anima? Essi sono prodotti dalle opinioni fallaci e dagli errori della mente, contro i quali c’è la filosofia e la saggezza. Soffermiamoci un attimo sulla proposta epicurea. In apparenza sembra semplicistica: bravo tu, che sei filosofo! ma noi, esseri umani fragili, quando soffriamo, soffriamo, e quindi ci sentiamo male, non vediamo l’ora che finisca e non riusciamo a sopportare il dolore più di tanto. In realtà, l’esperienza del dolore fisico, che accomuna prima o poi tutti, ci insegna che … l’atteggiamento di Epicuro non solo è quello più giusto ma anche quello che è più naturale, e infatti, che cosa succede in genere? Da un primo rifiuto del dolore, dalla disperazione iniziale, si comincia poi ad accettare gradualmente la sofferenza e a conviverci; dunque perché non educarci, fin da subito, a sopportare il dolore e, soprattutto, a non “demonizzarlo” ovvero non “sopravvalutarlo”, non esagerandolo, non fissandoci troppo su di esso, come insegnano anche … i film di spionaggio quando si viene catturati dal nemico che ci tortura. A parte le battute, credo che Epicuro voglia semplicemente dire di non esagerare, nella maggior parte dei casi, la portata della sofferenza fisica.

Non c’è però solo il dolore fisico: anche la sofferenza interiore, mentale o chiamatela come volete, ha la sua risposta: i mali dell’anima sono secondo Epicuro prodotti dalle opinioni fallaci e dagli errori della mente, per combattere i quali c’è la filosofia ovvero la riflessione ovvero il pensiero. E non è proprio quello che anche la psicoanalisi fa? Non ti porta alla consapevolezza delle tue dinamiche inconsce? In altre parole, la sofferenza, di qualunque tipo sia, è affrontabile tramite il pensiero. 

Il piacere

Per quanto riguarda l’ultimo punto, che cosa intende Epicuro per piacere (edoné)? Per rispondere dobbiamo anzitutto dire che si assiste qui ad un clamoroso rovesciamento di valori e di fini: a differenza di Platonismo, Aristotelismo e anche Stoicismo, il piacere viene considerato da Epicuro come il principio e il fine della vita felice. Direi di più: il piacere è il bene primo, connaturato con noi stessi. Il che significa che il piacere consiste nel … piacere di vivere, nel piacere di esistere, di essere qui, vivi, adesso. Quel che dobbiamo fare è mantenerci in questo stato di piacere, allontanando da noi, se possibile, i pensieri, le scelte, le situazioni che ci procurano qualunque tipo di sofferenza, fisica o interiore. Ecco il nucleo della proposta epicurea: se vuoi essere libero e felice mantieniti nello stato naturale in cui sei venuto al mondo, tutto il resto è secondario e può anche provocarti fastidi più o meno gravi. Detto ancora in altri termini, noi nasciamo sani ma diventiamo gradualmente sempre più malati perché ci insegnano a desiderare cose inessenziali e a immaginarci i mali in anticipo dimenticando così di vivere pienamente nel piacere del presente. Epicuro ci insegna che il vero bene è la vita, e a mantenere la vita basta pochissimo, e quel poco è a disposizione di tutti, di ogni singolo uomo.     

Ritengo che anche la psicoanalisi dica più o meno le stesse cose: il bambino nasce sano ma diventa gradualmente malato a causa degli sbagli nell’educazione che vengono ulteriormente alimentati nella civiltà in cui si vive (vedi Il disagio della civiltà di Freud).

Definiamo ora meglio il concetto di piacere secondo Epicuro. Noi compiamo tutte le nostre azioni – dice Epicuro – al fine di non soffrire e di non avere l’animo turbato (qui ci vedo un parallelo col principio di piacere e l’Eros freudiano di Al di là del principio del piacere). Se ci troviamo già in questa condizione, non desideriamo nulla, perché nulla ci manca. E’ questo l’obiettivo da raggiungere, è in questo che consiste la felicità o il piacere, e cioè appunto nella aponia (assenza di dolore fisico) e nella atarassia (assenza di dolore spirituale). In altre parole, la felicità consiste nel piacere stabile, che è assenza di dolore, e non nel piacere in movimento, che sono i momenti di gioia, di allegria, e simili.

Se è così, la pienezza del piacere si attinge nella caduta del desiderio. Non per nulla, per Epicuro, solo i desideri naturali e necessari vanno appagati (quelli legati alla salute, alla vita, al cibo), mentre gli altri vanno limitati o abbandonati. Da questo punto di vista, è più felice un vecchio che un giovane. Dice infatti Epicuro: “Non il giovane è felice, ma il vecchio che ha vissuto una vita bella; poiché il giovane nel fiore dell’età è mutevole ludibrio della sorte; il vecchio invece giunse a vecchiezza come a tranquillo porto e di tutti i beni che prima aveva con dubbio sperato ora ha sicuro possesso nella tranquilla gioia del ricordo”. Occorre far rivivere il ricordo dei piaceri passati e godere dei piaceri del presente, riconoscendo quanto siano grandi e piacevoli tali piaceri del presente. Non tanto quindi vigilanza, quanto scelta deliberata, sempre rinnovata, della distensione e della serenità, ed una gratitudine profonda verso la natura e la vita che ci offrono incessantemente, se sappiamo trovarli, il piacere e la gioia (“Sia reso grazie alla beata natura che fece le cose necessarie facilmente procacciabili, quelle difficilmente procacciabili non necessarie”). Vivere nel momento presente è, ancora una volta, un invito alla distensione e alla serenità: la preoccupazione rivolta al futuro, che ci lacera, ci nasconde il valore incomparabile del semplice fatto di esistere.

Il calcolo dei piaceri

Il principio è il seguente: ogni piacere è di per sé un bene, ma non è detto che le sue conseguenze nel tempo siano vantaggiose per noi. Viceversa, ogni dolore è un male, ma non è detto che da un male non possa derivare un bene per noi. Quindi il piacere diventa la norma su cui giudicare le nostre azioni perché ci suggerisce cosa scegliere, spingendoci verso ciò che nel tempo ci è più favorevole. Solamente un accorto calcolo dei piaceri può far sì che l’uomo basti a se stesso e non diventi schiavo né dei desideri né delle preoccupazioni, rinunciando ai piaceri da cui deriva un dolore maggiore (per fare un esempio attuale si pensi alle droghe o al fumo o al bere) e sopportare i dolori da cui potrà derivare un piacere maggiore. Insomma, per Epicuro il piacere è il bene completo e perfetto quando sia inteso come non aver dolore nel corpo né turbamento nell’animo. Per questo egli fa un elogio della phronesis (=saggezza, prudenza), considerata il fondamento di tutte le virtù. Essa ci abitua a contenere i desideri, a valutare con cura le conseguenze delle nostre scelte, prevedendo un ampio margine di sicurezza, per evitare che da un bene abbia a derivarne un male. Dice infatti Epicuro: “Per ognuno dei desideri va posta questa domanda: che cosa mi accadrà se si realizza il mio desiderio, e che cosa, se non si realizza?”. In conclusione, la vita sarà felice se saprà essere vissuta con saggezza, semplicità e giustizia. “Non ci può essere vita felice se non è anche saggia, bella e giusta; e non vi è vita saggia, bella e giusta che non sia anche felice. Le virtù sono infatti connaturate ad una vita felice, e questa è inseparabile dalle virtù”.

L’amicizia

Per Epicuro, proprio il piacere è una sorta di “esercizio spirituale”: piacere intellettuale della contemplazione della natura, pensiero del piacere passato e presente, piacere infine dell’amicizia. Nell’esaltare l’amicizia, Epicuro assume a volte dei toni di pura poesia. Vi è per lui nella amicizia (philia) una serenità più profonda, superiore anche a quella dell’amore (eros), perché più facilmente si può conservare libera da sentimenti che procurano dolore come la gelosia o il dolore del distacco o la paura di non essere riamati. L’atteggiamento di Epicuro verso gli altri uomini è riassumibile nella sua massima: “E’ non solo più bello ma anche più piacevole fare il bene anziché riceverlo”. In questa massima, il piacere assurge a fondamento e a giustificazione della solidarietà fra tutti gli uomini. E infatti Diogene Laerzio ci testimonia l’affetto di Epicuro per i genitori, la sua fedeltà agli amici, il suo senso di solidarietà umana (cfr. Vite dei filosofi, X, 9).

Conclusione

A questo punto, si potrebbe dire: ma se già Socrate ed Epicuro hanno detto tutte quelle belle cose, che ce ne facciamo della psicoanalisi? A questa domanda dovrebbe ovviamente rispondere uno psicoanalista ma provo comunque io stesso a dirne qualcosa: quello che hanno detto i due grandi filosofi dell’antichità va benissimo, è applicabile anche oggi, in certi contesti, e questo dimostra che la filosofia è una attività sui generis, che non ha una “data di scadenza” come le scoperte scientifiche che col tempo vengono modificate, bensì può funzionare in ogni tempo, e quindi anche la psicoanalisi potrebbe essere vista come un ulteriore approfondimento per la conoscenza dell’essere umano, per cui, se essa è “nata” (fra virgolette) da Socrate e da Epicuro, ha però oggi il suo stato di disciplina autonoma (come del resto dalla filosofia sono nate tantissime altre scienze, vedi la logica, la bioetica, la matematica, la chimica, l’astronomia ecc.) da non confondere né con la filosofia, né con la psicologia, né con la medicina, ed ha dunque tutto il suo diritto di … portare il suo contributo originale al sapere umano, pur continuando a vedere in Socrate e Epicuro due precursori delle sue tematiche, i quali ci hanno aiutato a cogliere quali sono le sue specificità. Grazie. 

BIBLIOGRAFIA

F. Adorno, Introduzione a Socrate, “i filosofi”, Laterza

Socrate, Tutte le testimonianze, Laterza

L. De Crescenzo, Socrate, Oscar Mondadori

Epicuro, Lettera sulla felicità o a Meneceo, Edizioni Stampa alternativa Millelire o UTET ecc.

Epicuro, Opere, UTET

Diogene Laerzio, Vite dei filosofi, ed. Laterza o TEA (il decimo libro è dedicato ad Epicuro)

D. Pesce, Introduzione a Epicuro, “I filosofi”, Laterza

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